Il cane di pietra

Lo sguardo del cane è mite e quasi sorridente, la sua posa rilassata. Anche se il suo pelo è scolpito a grandi tratti, l’effetto è realistico. Ed è vera anche la storia di questo oggetto di arte popolare, forse uno dei pochi provvisto di una testimonianza diretta che racconta la sua origine. C’era una volta, tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, il dottor Emanuele Dalla Bona, medico condotto di Sant’Anna d’Alfaedo, paese sulle montagne veronesi. Un suo paziente, tale Speri, aveva un figlio, gravemente malato di difterite. Il dottore lo salvò (siamo in epoca pre-penicillina) e Speri, per rendere omaggio al bravo medico, visto che di mestiere faceva il lapicida, scolpì per lui questo piccolo vaso in pietra grigia, scavato da un blocco unico.

La forma ovale ricorda certe salsiere o piccole zuppiere di terraglia venete di disegno neoclassico, anche se il cane, forse il cane del dottore, come manico è gradevolmente sproporzionato. Probabilmente il segreto dell’arte popolare sta proprio qui, cioè nell’infrangere una regola tradizionale per inserire un altro ritmo nello spazio dell’opera, un ritmo dato dall’estro, dalla ingenuità, dalla difficoltà tecnica da superare, dal materiale usato. Questa piccola urna, assolutamente non funeraria, trasmette un senso di pace e di intimità: non è difficile immaginare il dottore impugnare il coperchio, alzarlo e prendere del tabacco da pipa, mentre racconta a qualche ospite la storia della guarigione del giovane, in una sera d’inverno.

E, per finire la favola dickensiana ma vera, fu proprio in inverno che il dottore, tornando di notte dopo aver operato un paziente di peritonite in una piccola contrada sperduta, cadde nell’esercizio delle sue funzioni, come avrebbe detto il rapporto dei Regi Carabinieri, cioè fu trovato morto nella neve e trasportato a casa a cavallo, come molti anni dopo mi hanno raccontato i suoi nipoti.

Francesco Bletzo