Il grifone preferito di Ruskin

Molti veronesi gli passano davanti ogni giorno, senza quasi notarlo. Ma per John Ruskin era «my favourite Griffin», quello a sinistra per chi entra nel Duomo. Come scrive nelle sue Lettere da Verona, trovava «uno studio senza fine» nelle zampe di marmo «arancione e grigio» dell’animale che ritrasse nel meraviglioso acquerello oggi conservato all’Ashmolean Museum di Oxford. Era una mattina di giugno del 1869: intorno al grande critico d’arte e pittore inglese «le più abiette carogne di bambini dalla faccia da scimmia» si divertivano a cavalcare i grifoni, suscitando la rabbia di un uomo assorto a un lavoro che era anche il suo gioco, il gioco di tutta una vita.

Andava in estasi nelle sere lunghe di primavera, quando la luce rosata illuminava la facciata del Duomo mettendo in risalto le sfumature di colore della pietra. Ma Ruskin non era solo un esteta, come spesso viene qualificato oggi. Quella bestia di marmo gli interessava tanto perché sapeva che non è semplicemente il bizzarro incrocio di un leone e di un’aquila: l’artigiano medievale ha davvero visto un grifone nella sua immaginazione, e lo ha scolpito in base alla sua fede in una realtà di cui sentiva la presenza, ma che non riusciva ad afferrare completamente.

È questo il «lampo di fantasia mitica» che Ruskin riconosceva nelle pietre di Verona e di altre città d’Italia: l’allusione a un altro tempo che il grifone, con la sua doppia natura, ci indica; il mistero familiare a cui gettiamo appena un’occhiata, attraversando una piazza. Sta a noi fermarci a immaginare; magari solo per risentire le grida di quei bambini così poco rispettosi dei monumenti, ma in fondo così simpatici.